Contrasti con il vescovo Calchi

19 febbraio 1715:

al nuovo vescovo succeduto allo Spada, Genesio Calchi, milanese, venne proposta una relazione riguardante le regole da stabilirsi per procedere nelle cause di fede. Il vescovo, dimostrò un'ottima disposizione e assicurò della sua volontà d'incontrare la pubblica soddisfazione; disse di essere stato informato dal papa del particolare status di cui godeva la città di Lucca in materia d'Inquisizione, e del fatto che i vescovi della città "godono la prerogativa di usare in queste cause l'autorità ordinaria in forma più specifica che in altri luoghi, cioè con indipendenza da Roma, a distinzione di altre città, che per quanto godono pur esse d'essere esenti da detto particolare Tribunale, sono poi obbligate a dependere da quel Supremo". Il vescovo assicurò di non voler fare nulla che potesse turbare lo stato delle cose. Tuttavia affermò di non poter stipulare patti e convenzioni nella materia, come avrebbe voluto il governo, perché non ne aveva l'autorità.A.S.L. Consiglio generale, Riformagioni segrete , 405 (anni 1714-1716), cc.171r.-175r
9 agosto 1715: i membri della Balia assicurarono in consiglio che nel Tribunale ecclesiastico si procedeva come stabilito in accordo con il vescovo. Si era fatta la deputazione non di un solo notaio laico ma di due e cioè dell'egregio Rinaldi e dell'egregio Christofani, di un fiscale anch'esso laico, mentre non c'era stata alcuna fissazione di consultori né di persone particolari destinate a prendere le denunzie, che dovevano essere ricevute solo dal vicario. Si avvertiva che bisognava operare con prudenza in questa materia per non suscitare la "gelosia" di Roma.
22 marzo 1720:

l'Offizio sopra la Giurisdizione presentò al Consiglio una relazione sugli abusi che si diceva fossero perpetrati dagli ecclesiastici in materia di fede. Si temeva nuovamente che si introducesse "insensibilmente il Tribunale tanto temuto della Santa Inquisizione". Il più grave abuso consisteva nel fatto, che, si diceva, il vescovo mandasse a Roma i processi che istruiva nella curia, per attenderne indicazioni dal Sant'Offizio. Si sarebbe venuta così a costituire una totale subordinazione al Tribunale di Roma.

Il caso che aveva suscitato l'apprensione del governo era quello di un processo contro un religioso claustrale della città, Niccolò Burlamacchi, gli atti del quale erano stati mandati a Roma; infatti, si diceva, la congregazione di Roma aveva sempre preteso che in materia di sollecitazione, come nel caso in questione, i processi fossero sottoposti alla sua revisione; ciò nonostante i vescovi precedenti al Calchi avevano sempre voluto sostenere la loro giurisdizione e non avevano voluto accordare questa dipendenza da Roma, ma si temeva che il Calchi mirasse solo a mettere in difficoltà la Repubblica.

Si credette opportuno rendere noto al papa il difficile stato di cose, presentando una "positiva querela per questo disordine che contraddice anche il volere espresso dal Papa nel breve del 1714 nel quale si dice il vescovo deve operare con la sua autorità ordinaria". Ma si temeva che un simile passo fosse pericoloso, perché avendo il vescovo più volte scritto a Roma di soffrire persecuzioni dal Governo per il modo di procedere nelle cause di fede, con una simile querela si sarebbe potuto dar credito alle sue esagerazioni ed offendere la dignità del papa.

Si ritenne quindi più opportuno fare al papa "una doglianza in generale, senza significare cosa alcuna contro il vescovo, per li pregiudizi che con le sue novità inferisce al Pubblico, ed al Paese tutto". A.S.L. Consiglio Generale, Riformagioni Segrete, 407 (anno 1720), cc.41v.-44r.

Questa controversia fu solo uno dei motivi che spinsero la Repubblica ad agire a Roma per la rimozione del vescovo Calchi. Questi fu costretto in esilio a Pisa, da dove giunse la notizia della sua morte il 22 gennaio 1723.

7 novembre, 15, 19, e 22 dicembre 1724:

I lucchesi furono sempre all'erta nella vigilanza sulla materia. Nel registro dell'Offizio sopra la Giurisdizione in queste date si ritrovano gli ammonimenti a "invigilare" sulla materia e il disappunto per l'operato del vescovo che, si lamentava, agiva come giudice delegato del Sant'Offizio di Roma.

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