Abusi introdotti nei processi di Santa Fede

Dopo un lungo periodo, dal 1724 al 1743, durante il quale la materia della religione o meglio dei processi per motivi legati alla fede, non sembrò costituire oggetto di preoccupazione per il Consiglio Generale della Repubblica, (o per lo meno non se ne è trovata traccia nei registri governativi), intorno alla metà del secolo e per circa un ventennio, l'argomento ritornò prepotentemente di attualità.

4 marzo 1743:

i membri dell'Offizio sopra la Giurisdizione sostennero che i cancellieri laici di vescovato erano "abilitati a rogarsi" in materia di fede per mezzo di un giuramento straordinario nel quale "si legge fulminata la scomunica "late sententia" al cancelliere che mancasse alla Fede, e al giuramento prestato, dalla quale censura dichiarasi non poter essere presciolto che dalla Sacra Inquisizione di Roma: cosa che per verità fa vedere la soggezione del Tribunale nostro a quello". A.S.L. Offizio sopra la Giurisdizione, 10 (anni 1740-1748), cc.88r-97v

Si aveva notizia di abiure segrete, rogate da un cancelliere ecclesiastico. Nelle cause di fede si sopprimevano i nomi dei testimoni fiscali, cioè portati dall'accusa, non consentendo perciò al reo, che li ignorava, di poter avanzare eccezioni. Inoltre si imponeva giuramento di silenzio all'avvocato difensore, in modo tale che il reo non potesse sapere nulla sulla sua difesa, cose tutte che erano contrarie non solo allo stile ordinario della curia, ma ripugnanti ad ogni diritto naturale e a ogni ragione. Questo era un male antico che l'acquiescenza o l'indolenza degli antichi reggitori dello Stato aveva reso irrimediabile "senza voler turbare i diritti rispettabili di prescrizione".

5 aprile 1743: l'Offizio presentò al Consiglio un biglietto dell'arcivescovo con il quale si informava della revoca del giuramento sulle materie di fede imposto per il passato ai cancellieri e al promotore fiscale di vescovato "nei termini medesimi imposti dalla Sacra Inquisizione di Roma, e certamente lesivi della Pubblica Giurisdizione". Il vescovo aveva infatti ora riservato a sé l'assoluzione dalla comminata scomunica, dando assicurazioni sull'avvenire e promettendo riparo.
13 maggio 1743: l'Offizio prese in esame il modo di procedere nelle cause di fede, rilevando nuovamente la serie di abusi introdotti nella curia. L'accusatore, denunziante il sospettato di reati nella materia, era ammesso anche come testimone. Non si comunicavano all'inquisito, non solo i nomi dei testimoni a sfavore, quelli "fiscali", ma neppure erano portati a conoscenza dell'intero processo, offensivo e difensivo, ma solo delle parti principali. I difensori dei rei erano obbligati al giuramento di silenzio, "con la riserva dell'assoluzione in caso di contravvenzione alla Congregazione del Sant'Offizio di Roma, come si praticava prima con li cancellieri e Promotore Fiscale d'Arcivescovato". Talvolta si imponevano ai laici pene temporali.
31 dicembre 1744: memoriale dell'Offizio sopra la Giurisdizione: in esso si ribadì che in Lucca non poteva esserci un tribunale per le cause di fede separato da quello del vescovo e collegato in qualsiasi modo al Sant'Offizio. Il vescovo inoltre, non poteva procedere come delegato, cioè con un'autorità straordinaria, potendo valersi solo di quella ordinaria.

La Repubblica aveva sempre respinto fermamente ogni abuso introdotto e ciò, si rammentò, aveva sempre dato luogo ad acerbe controversie con i vescovi della città. Ma se anche il papa avesse voluto modificare lo stato delle cose, la Repubblica non avrebbe esitato ad opporsi: "poiché [...] non è il principe laico obbligato ad abbracciare quelle leggi ecclesiastiche, le quali non essendo però invulgate per regola del nostro credere, o delle nostre morali azioni, si scorgono contrarie o ai privilegi dei principi, o alla tranquillità dello Stato, o ai commodi stessi della Nazione".

Si lamentò che abusi ben più gravi di quelli che nel passato avevano suscitato la riprovazione del Governo erano al momento attuale perpetrati, giungendo a considerare un'illusione la certezza che la Repubblica aveva avuto fino ad allora, di aver sempre vinto la sua lotta contro l'Inquisizione. Sia l'utilizzo di notai e fiscali ecclesiastici, che la deputazione di consultori fissi, come anche tutti gli altri abusi dei quali nel 1713 si era chiesto al vicario del vescovo, rasentando la violenza, l'abolizione, furono considerati ora come poco importanti.

Le nuove pratiche introdotte dal tribunale ecclesiastico e cioè il citare il presunto reo senza l'esposizione dell'accusa, l'ammettere come denunciante e testimone qualunque persona, anche se "infame e inabile a testificare", il tacere al reo il nome del denunciante, dei testimoni e le loro deposizioni, erano pratiche contrarie ai sacri canoni e respinte dal foro ecclesiastico negli altri tipi di procedimenti. Inoltre eccedevano la potestà ordinaria del vescovo, erano estranee all'autorità ordinaria del vescovo "e se non ha egli acquistato in favor di esso alcun titolo di legittima prescrizione [...] potrà l'Eccellentissimo Consiglio al favor dei suoi Privilegi, e possessi obligare senza intacco di sua coscienza, quel Tribunale a desistere da tali abusi, così assicurandoci i teologi si di presente che in altri tempi consultati".

Si propose quindi di insistere con il vescovo affinché il suo tribunale anche nella materia di fede fosse ristretto nei confini della sua autorità ordinaria, eliminando tutte le nuove pratiche "che unicamente convengono ad una potestà straordinaria e delegata".

28 gennaio 1746: ebbe finalmente luogo l'incontro con il vescovo che rispose che non era in suo potere fare i cambiamenti richiesti dal governo, senza l'approvazione della Santa Sede. Pur dovendo usare la sola autorità ordinaria infatti, il vescovo di Lucca "non è dispensato dalla fedel custodia di quelle leggi e regole, le quali nella forma di procedere, e di giudicare osservano gli Inquisitori Apostolici, anzi è tenuto a praticarle con tutta religiosità, ed esattezza".
7 marzo 1746: Si ribadì la necessità che il vescovo adoperasse la sola autorità ordinaria, che anche in tempi molto più pericolosi, quando erano state introdotte nella città dottrine eterodosse, era stata sempre sufficiente a "purgarla" e a difendere la purezza della fede. Se il vescovo avesse agito in questo modo si assicurava che avrebbe avuto sempre l'appoggio e l'assistenza delle istituzioni pubbliche. Si offrì anche la protezione ai testimoni dalle possibili ritorsioni degli inquisiti.
8 marzo 1746: il Consiglio inviò una commissione di cittadini dal vescovo per far presente sia il risentimento del governo per la volontà del vescovo di voler continuare a usare le forme del Sant'Offizio o piuttosto sospendere i processi, sia la fermezza nel voler respingere questi abusi e conservare i propri privilegi.
9 marzo 1746: una relazione della commissione comunicò l'esito favorevole dell'incontro avuto con il vescovo. Questi aveva infatti dato "riprova del suo affetto verso la Patria, facendosi nuovo capitale di merito, nel secondare le giuste premure del medesimo [governo]".

Il prelato, esprimendosi con parole chiare ed inequivocabili, aveva affermato che anche nelle cause di fede, non avrebbe proceduto in altro modo se non in quello usato nelle cause per altri tipi di delitti, non appartenenti alla religione. Da parte del Consiglio si rinnovò comunque, ai deputati sopra i disordini nelle cause di fede, l'obbligo di vigilare costantementeA.S.L. Offizio sopra la Giurisdizione, 10 (anni 1740-1748), cc.171v.-181v.

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